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I carnici vogliono il loro elettrodotto interrato

La grande manifestazione tenutasi a Cercivento e a Paluzza contro la realizzazione dell’elettrodotto Würmlach-Somplago di sabato 13 novembre ha sollevato l’attenzione di molti sulla questione dell’importazione di energia elettrica dalle regioni confinanti, che poi in qualche misura sono interconnesse con i centri di produzione di energia elettronucleare.

La Cooperativa carnica di produzione di energia idroelettrica, la Secab, un esempio di sfruttamento delle risorse idriche della montagna a favore delle popolazioni locali, ha definito insieme alla Alpen Adria Energy Line, di cui è socia, un progetto per un elettrodotto interrato che collegherà Würmlach a Paluzza e quindi alla rete – in parte già interrata – che collega i comuni serviti dalla Cooperativa. Malgrado il maggiore sforzo economico che l’interramento comporta, sono state evidentemente superate tutte le obiezioni di carattere tecnico che vengono opposte a questa soluzione per l’elettrodotto di Somplago. L’elettrodotto contro cui la popolazione va protestando dovrebbe passare comunque per Paluzza, superare il Monte Croce Carnico e arrivare alla località carinziana di Würmlach. Perché non adottare la soluzione tecnica dell’interramento,come fa la Secab, che ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie e si appresta ad avviare i lavori, nei prossimi mesi? Come si vede, la gente ha ragione di protestare.

Cipe e Regione: nessuna grande infrastruttura per il Friuli

Una débacle per la Regione la delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, Cipe, di giovedì 18 novembre. Nell’elenco delle opere per 21 miliardi approvate, non un intervento infrastrutturale riguardante il Friuli Venezia Giulia è stato preso in considerazione.

Per il Friuli poco male, perché nessuna delle opere di cui la Regione chiedeva il finanziamento riguardava il Friuli: si trattava infatti della piattaforma logistica del Porto di Trieste, e dell’Alta Velocità Mestre-Trieste, un’opera che forse è utile a livello europeo, ma che per la Bassa Friulana comporterà solo una devastazione del territorio.

Quanto contano gli interessi triestini negli uffici e nei centri di decisione della Regione appare con estrema chiarezza anche in questa occasione. Il  Friuli attende da decenni opere importanti, quali la strada Gemona-Cimpello, necessaria per collegare l’Alto Friuli con l’Autostrada Venezia Trieste senza dover passare per Udine, oppure i due trafori della Mauria e del Monte Croce Carnico, necessari per aprire le vie di comunicazione della Carnia con il Cadore e la Carinzia, consentendole di uscire da uno storico isolamento, oppure le opere di adeguamento delle infrastrutture stradali e ferroviarie necessarie alla realizzazione del Corridoio Adriatico-Baltico, ben più strategico per il Friuli che il corridoio Cinque il quale si limiterà a passare sul territorio friulano senza interconnessioni di rilievo.

Quando i friulani prenderanno in mano il loro destino, e cesseranno di avallare gli interessi del capoluogo giuliano?

I piccoli comuni in Europa

Sta diventando un luogo comune la considerazione secondo la quale i comuni in Regione e in Italia sono troppo numerosi e di dimensioni non tali da consentire la fornitura a costi contenuti di servizi adeguati ai cittadini. Per ridurre i costi delle amministrazioni locali si dovrebbe pertanto spingere verso una fusione dei comuni più piccoli, in modo da aumentare le dimensioni medie delle amministrazioni comunali e ridurre il loro numero. Ne deriverebbero notevoli riduzioni dei costi.
Non è questa la sede per affrontare adeguatamente il problema della riforma degli enti locali, che richiederebbe una coraggiosa riconsiderazione dei compiti e delle funzioni da attribuirsi alle unità amministrative di base (comuni), alle unità amministrative di area vasta (province, circondari, comprensori, distretti, contee, o come altrimenti le si vuol chiamare), e delle unità federali (Regioni, Länder, Stati) e cioè di quelle unità del governo locale che si pongono al di sotto dello Stato, o della Federazione.
Basti in questa sede soltanto considerare che negli altri paesi europei il numero dei comuni è uguale o anche molto superiore a quello del nostro paese o della nostra regione. In Italia i comuni sono 8.094, con 60.442 mila abitanti, in Austria, con 8.350 mila abitanti, i comuni sono 2.381, in Germania, con 82.438 mila abitanti, i comuni sono 13.678, in Francia, con 65.447 mila abitanti, i comuni sono addirittura 36.678. Se vogliamo venire più vicino, la provincia di Udine con 530 mila abitanti conta 137 comuni, mentre la Carinzia, un poco più popolosa avendo 560 mila abitanti, conta 132 comuni, praticamente lo stesso numero. Appare evidente come i comuni, essendo le unità amministrative di base, devono seguire le comunità, per offrire ai cittadini quei servizi diffusi o di sportello che richiedono la presenza degli uffici e delle rappresentanze nelle singole comunità e siano raggiungibili per via pedonale o tutt’al più ciclabile. La Francia ha applicato tale principio in termini estremamente rigorosi.
Una impostazione rigorosamente autonomista non può che favorire i piccoli comuni, perché è a livello di singola comunità che si può partecipare meglio alle gestione della cosa pubblica, si può esercitare il controllo sociale sull’operato degli amministratori, si possono individuare le responsabilità, spingendo al massimo l’autogoverno, e si può garantire l’accesso agevole ad un minimo di servizi di base. Gli autonomisti non devono farsi prendere dai luoghi comuni di un falso efficientismo, che in nome di un risparmio di risorse tolgono i servizi alle popolazioni che scelgono di continuare a risiedere nelle piccole località, che rappresentano punti preziosi di vita sociale e di conservazione delle identità culturali della popolazione.

GARIBALDI IL PRIMO VERO AUTONOMISTA DELLA STORIA ITALIANA.

In occasione del “Bicentenario” di Giuseppe Garibaldi, la Lega Nord aveva liquidato il Generale come “un fautore dello Stato centralista”, alleato di Cavour e Vittorio Emanuele contro il progetto federalista di Carlo Cattaneo. Roberto Castelli non è De Felice, ma l’esponente di un movimento nato dal delirio di onnipotenza di un signore del Varesotto diplomato alla Radioelettra. Ma hanno ragione? Garibaldi non era certo un esperto di questioni istituzionali. Durante l’occupazione della Sicilia, affidò l’organizzazione amministrativa a Francesco Crispi, animatore della rivoluzione del ’48. Crispi sosteneva la specificità degli istituti isolani. Aveva sposato la causa dell’unità italiana, quale soluzione e garanzia per la conquista delle libertà e dei diritti dell’isola. Da fautore del sicilianismo democratico e dell’autogoverno locale, si era avvicinato alle tesi federaliste di Cattaneo. Questi, a sua volta, guardava con interesse all’esperimento garibaldino, in vista di un assetto decentrato del futuro Stato unitario. Per questo raggiunse Garibaldi a Napoli, accettandone l’offerta di collaborazione. Alla fine, non saranno certo il Generale e Crispi a cedere all’annessione per plebiscito e all’assunzione della legislazione piemontese in tutta la penisola. Fu piuttosto l’intelligenza politica di Cavour a spiazzarli. Le proposte di decentramento amministrativo, elaborate dal governo garibaldino, non furono mai esaminate dal Parlamento post-unitario ed anzi Garibaldi lasciò detto Parlamento sia per la delusione di averlo reso “straniero in Patria” cedendo Nizza, sia perché si era giocato la faccia promettendo autonomie che non sono state rispettate dal centralismo dei Savoia. I leghisti sono disinformati. Pur finanziata dal Regno, la spedizione dei Mille fu organizzata dai rivoluzionari siciliani in esilio. Crispi convinse Garibaldi a guidarla e centinaia di volontari vi si unirono a Marsala. Se mai fosse sottratto alle deformazioni strumentali, il dibattito sul Risorgimento farebbe emergere il problema che ci troviamo ancora dinanzi: fare l’Italia. Questo Paese sempre più disgregato, preda di particolarismi e spinte corporative, è sull’orlo della dissoluzione. Serve uno Stato moderno, senza sperequazioni territoriali e localismi, senza questioni meridionali e settentrionali, ma con una vera autonomia che permetta la responsabilizzazione anche delle Regioni meno virtuose. I Leghisti da sempre sparano a zero su Garibaldi ed oggi, con l’avvicinarsi del 150° anniversario dell’unità d’Italia, mi sono preso la briga di controllare le Province di provenienza dei 1077 Garibaldini: BERGAMO 15,35%, GENOVA 13,21%, MILANO 5,95%, PAVIA 5,21%, BRESCIA 5,12%. Ma vi rendete conto che l’Italia la hanno fatta i “PADANI” e che probabilmente i loro “nipotini” nemmeno lo sanno?

Gianni Sartor

Coordinatore del Movimento Autonomista Friulano

Provincia di Pordenone

Il Friuli non è “Padania”

Le polemiche di questi giorni scatenatesi tra esponenti leghisti e finiani della maggioranza che governa il paese, offrono l’occasione per precisare la posizione del Friuli a questo riguardo. Hanno ragione coloro che sostengono che la Padania è una mera espressione geografica, priva di seri riferimenti di natura storica e culturale, che non siano solo quelli dell’avversione al Sud che è visto come un peso per l’Italia, che sarebbe il vero motore produttivo del paese, mentre il meridione si nutrirebbe solo di vocazioni parassitarie.

Non è questa la sede per affrontare i problemi del sottosviluppo del Sud e delle molteplici forme di sfruttamento che il Nord ha esercitato storicamente nei confronti delle regioni meridionali. Va detto che, al di là delle interpretazioni del significato di Padania, è sicuro che il Friuli non ha mai fatto né fa parte di questo territorio. Dal punto di vista geografico, il Friuli non è Padania, perché le sue acque sfociano tutte direttamente nell’Adriatico, senza contribuire ai flussi del Po.

Dal punto di vista storico i rapporti con le regioni padane – quando vi sono state – sono risultate più conflittuali che non di collaborazione: si ricordi che le milizie patriarcali hanno sempre combattuto dalla parte dell’Imperatore, contro i comuni lombardi e che i reggimenti friulani hanno contributo alla repressione dei moti lombardi del Quarantotto. Dal punto di vista culturale, i valori e i comportamenti sono più vicini a quelli del Centroeuropa che a quelli lombardi e piemontesi. E infine che dal punto di vista linguistico il Friuli si differenza nettamente dalle altre regioni settentrionali, dove si parla una congerie di dialetti italiani, mentre qui si parla una lingua ladina riconosciuta come tale sia a livello nazionale che internazionale.

Il Friuli non è Padania, e di questo tutti i friulani dovrebbero prendere piena coscienza, rivendicando il loro status di comunità autonoma e libera dai condizionamenti che arrivano da Milano.